Glicemia alta: cosa mangiare per abbassarla
Con l’avanzare dell’età è molto comune riscontrare, dalle analisi del sangue, valori di glicemia alta. La domanda più comune, per chi si ritrova in questa situazione, è: quali alimenti scegliere per ridurla?
Per rispondere in modo esauriente a questo interrogativo, è fondamentale inquadrare con chiarezza le caratteristiche del problema. In quest’articolo, evidenzieremo come s’instaura una condizione di alterato controllo glicemico e gli eventi che, nel tempo, posso condurre a un diabete conclamato. Analizzeremo, poi, le strategie alimentari finalizzate a colpire il “nocciolo” del problema.
Contenuti dell’articolo:
- Che cos’è l’insulinoresistenza?
- Il “nocciolo” del problema: il grasso viscerale;
- Perché la perdita di grasso è fondamentale per migliorare la situazione;
- Strategie alimentari specifiche;
- L’attività fisica come elemento irrinunciabile.
Che cos’è l’insulinoresistenza?
Il riscontro di valori elevati di glicemia a digiuno è, purtroppo, una condizione molto comune ai giorni nostri. Ci riferiamo, in particolare, ad alterazioni che insorgono con l’età, soprattutto in individui di sesso maschile. Nel caso della donna, invece, le anomalie glicemiche sono più frequenti dopo la menopausa.
Questa condizione, soprattutto se di recente scoperta, non rappresenta necessariamente una diagnosi di diabete. È piuttosto un campanello d’allarme che indica che qualcosa, nel controllo della glicemia, si sta alterando.
Il Medico curante è il primo professionista a prescrivere ulteriori indagini. In tal modo, potrà distinguere tra la situazione appena descritta e un diabete ormai in atto. Una volta fatto ciò, inviterà il paziente, nel primo caso, a cambiare stile di vita. Nel secondo caso, invece, si farà supportare da un Diabetologo per attuare l’opportuna strategia farmacologica. In ambo i casi, lavorare sull’alimentazione è fondamentale.
Il termine tecnico per indicare un’iniziale condizione di alterazione del controllo glicemico è insulinoresistenza.
L’insulina è un ormone prodotto dal pancreas. Dopo un pasto, i carboidrati presenti negli alimenti sono digeriti e assorbiti dall’intestino. Sono, poi, trasportati nel sangue sotto forma di glucosio. La glicemia (il termine che leggiamo sulle analisi) non è altro che la concentrazione di glucosio nel sangue.
Dopo mangiato, la glicemia aumenta. In condizioni normali, dopo quest’evento, il pancreas produce insulina che permette l’ingresso del glucosio all’interno delle cellule. La glicemia può, in tal modo, ritornare a valori basali.
In condizioni d’insulinoresistenza, invece, è come se le cellule fossero “sorde” al messaggio dell’insulina. La glicemia elevata rappresenta, quindi, un campanello d’allarme che dimostra l’instaurarsi di quest’anomalia.
Il “nocciolo del problema”: il grasso viscerale
Come descritto nel paragrafo precedente, l’insulinoresistenza è una condizione in cui le cellule del corpo non sono in grado di ricevere il messaggio portato dall’insulina. Ciò determina un innalzamento della glicemia. Tuttavia, inizialmente, il corpo cerca di compensare questa situazione, stimolando il pancreas a produrre maggiori quantità di ormone. Questi eventi causano, nel tempo, numerosi effetti deleteri per le cellule del pancreas, con conseguente crollo della produzione d’insulina. Ecco che si giunge al diabete conclamato.
Che cosa provoca tutto ciò? Senza entrare negli specifici meccanismi molecolari, possiamo affermare che l’origine del problema è il grasso viscerale. Esso è tipico dei soggetti con la classica conformazione a “mela”, cioè, con il tessuto adiposo collocato principalmente a livello dell’addome. La caratteristica delle cellule che compongono il grasso viscerale è di produrre molecole infiammatorie, che sono la causa dell’alterazione del funzionamento dell’insulina.
Perché la perdita di grasso è fondamentale per migliorare la situazione
Da quanto evidenziato, il primo elemento che scatena queste precoci alterazioni è l’aumento del grasso viscerale. Questi processi, se lasciati progredire nel tempo, possono portare a un vero e proprio diabete.
Tuttavia, a questo stadio possiamo ancora intervenire, riducendo i depositi adiposi. Ciò e confermato da vari studi condotti su soggetti a rischio diabete. Si è osservato che la perdita di peso corporeo riduceva il rischio di diabete in maniera proporzionale. Ecco perché la prima prevenzione consiste nel dimagrire attraverso una restrizione calorica e un aumento dell’attività fisica.
Strategie alimentari specifiche
Da quanto spiegato, emerge come la perdita di peso corporeo (a carico del grasso) è il principale intervento che può agire sull’insulinoresistenza. Tuttavia, è possibile lavorare a un livello più profondo.
Una persona affetta da insulinoresistenza presenta dei segni caratteristici che interferiscono con il tentativo di perdere peso. Essi sono la conseguenza delle brusche oscillazioni glicemiche di cui soffrono. In particolare ricordiamo:
- Crisi di fame;
- Calo dell’energia in momenti di digiuno;
- Desiderio di cibi dolci;
- Difficoltà a perdere peso con una dieta ipocalorica.
Ecco perché è fondamentale un approccio alimentare mirato che agisca a più livelli del problema:
- Stabilizzare le oscillazioni glicemiche;
- Assicurare un apporto di grassi salutari;
- Inserire alimenti che agiscano sull’infiammazione “di fondo”, prodotta dal grasso viscerale e, di conseguenza, dagli altri tessuti;
- Agire sullo stress ossidativo presente;
- Migliorare la salute del microbiota intestinale.
Per ottenere ciò, possiamo lavorare in tal modo sulla nostra alimentazione:
- Ridurre drasticamente i cibi ricchi in zuccheri semplici (dolci, biscotti, caramelle, bibite zuccherate, succhi di frutta industriali, …);
- Preferire cereali e derivati ricchi in fibre, come pasta e pane integrali;
- Inserire i legumi come primo piatto;
- Incrementare il consumo di verdura a ogni pasto;
- Preferire, come fonti proteiche animali, il pesce e le carni bianche;
- Ridurre le carni rosse e i formaggi;
- Scegliere grassi sani, come olio extravergine di oliva, olio di semi di lino, frutta secca, semi;
- Utilizzare spezie ed erbe aromatiche;
- Mangiare prodotti fermentati come yogurt, kefir, crauti, miso, …
L’approccio va personalizzato in funzione della presenza di altre patologie (Sindrome dell’Intestino Irritabile, ernia iatale, Reflusso Gastroesofageo, allergie alimentari, …).
L’attività fisica come elemento irrinunciabile
Il movimento fisico contribuisce alla spesa energetica giornaliera. Ne consegue che è un coadiuvante alla perdita di peso. Il suo ruolo, però, non si ferma qui.
L’attività fisica permette l’ingresso di glucosio all’interno dei muscoli in modo indipendente dalla presenza o dalla sensibilità all’insulina. Infatti, permette l’attivazione (più precisamente la traslocazione) di alcuni trasportatori, detti GLUT-4, che consentono l’ingresso dello zucchero nelle cellule muscolari.
Il cambio dello stile di vita, infine, agisce in modo positivo sul metabolismo.
La tipologia di attività fisica da scegliere dipende dal grado di sovrappeso o obesità del soggetto e dalla presenza di patologie. Sulla base delle indicazioni del medico, si valuta l’intensità di lavoro sostenibile, in sicurezza, dal soggetto. Per chi ha un peso corporeo molto elevato, il solo passaggio da una vita completamente sedentaria a un’attività aerobica molto leggera (ad esempio trenta minuti di passeggiata quotidiana) può migliorare significativamente il metabolismo.